Riconciliazione

Alla porta della scuola di mia figlia ho incontrato un'amica, la madre di uno dei suoi compagni di classe. Lei, una musulmana, mi ha detto che era infastidita dal razzismo di altre madri e bambini nella scuola: molte le hanno fatto domande che erano troppo impertinenti, prevenute e che mostravano una feroce ignoranza nei suoi confronti. Ad esempio, mi raccontò che i bambini le chiesero se avesse capelli sotto il velo, o se indossasse mutande come gli altri.

Mentre lei parlava, mi sono ricordata di due eventi del passato. La prima storia mi è stata raccontata da mia nonna, che aveva studiato in una scuola privata gestita da suore e aveva anche lei lo stesso dubbio: voleva sapere cosa c'era sotto il velo. Con l'aiuto di alcune amiche hanno distratto l'insegnante, mentre un'altra ragazza cuciva il velo al suo maglione, in modo che cadesse con il suo prossimo movimento. E, naturalmente, ci sono riuscite. Lei e le sue compagne sono finite in punizione. Punite, ma ora sapevano che le suore sì avevano i capelli.

Il secondo ricordo è questo: tra il 2001 e il 2003 ho lavorato in un piccolo supermercato a Creazzo come cassiera. Durante il periodo in cui ho lavorato lì, è stato molto difficile per me fare amicizia, dato che in generale le persone sono più chiuse che in Bolivia e io non sono molto socievole. Quando lavoravo da più di un anno, una cliente al supermercato mi chiese se poteva regalarmi un paio di scarpe usate che gli stavano strette. Non mi aveva mai parlato prima. Devo ammettere: la mia prima impressione è stata cattiva. Perché mi aveva offerto degli avanzi? Io lavoravo molto per inviare soldi a casa e comprarmi vestiti e libri. Ho pensato che fosse una forma di pregiudizio, che mi avessi voluto dare le scarpe perché nessun italiano le avrebbe volute. Sappiamo tutti che c’è razzismo verso i migranti, cos'altro poteva essere?

Ora mi rendo conto di quanto ero prevenuta. C'era un contenitore per donare i vestiti usati vicino alla porta del supermercato: se lei avessi voluto solo liberarsi di capi usati sarebbe stato sufficiente lasciarli lì. Quelle scarpe non le aveva offerto a nessuno, a nessun altra impiegata del supermercato, nemmeno alle altre donne migranti. No, quello che voleva era dare quelle scarpe a me, a nessun altro. Era un modo di comunicare, un modo per dire che voleva stabilire un legame con me, e con il mio pregiudizio ho impedito che qualcosa venisse generato, forse l'amicizia che così tanto speravo di trovare.

Vedo lo stesso pregiudizio che ho avuto per quella donna in molti dei commenti che vengono fatti ogni giorno sugli altri, su quelli che non la pensano come uno, quelli che non si vedono come uno. Abbiamo il dito puntato sul petto dell'altro per indicarlo come discriminatorio, razzista, sessista e molti altri qualificatori; ma quanto è difficile riconoscere che anch'io (e anche tu, caro lettore) ho quelle stesse zizzanie!

Ci sono forme gravi di sessismo, discriminazione e razzismo nel nostro paese (e nel mondo), ovviamente! Abbiamo molto lavoro davanti a noi; ma in nome di quella lotta possiamo commettere ingiustizie. Forse uno dei nostri problemi di comunicazione più seri è che supponiamo quello che l'altro vuole dire e non siamo in grado di ascoltare quello che dice veramente. Inoltre, confondiamo la curiosità e la stupidità con il razzismo, ma non sono la stessa cosa.

La chiave della diversità non è solo quella di accettare coloro che hanno un diverso colore o abitudini sessuali; ma nel modo in cui trattiamo coloro con i quali abbiamo le nostre discrepanze più profonde. Penso che siamo troppo abituati a lanciare pietre e molto poco a guardarci allo specchio. Ebbene, questo articolo è un modo di riconciliazione con me, quella me del passato.



Questo articolo originalmente si trova pubblicato in spagnolo qui.



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