Prologo di Bianco, a cura di Claudio Cinti

 

Se “il verde non è un colore” – come afferma un impressionante titolo della letturatura boliviana contemporanea (Blanca Wiethüchter, El verde no es un color, La Paz 1992, 2004) – apparirà dunque lecito, in limine a quest’altro titolo impressionante proveniente dal medesimo spazio-tempo letterario, interrogarsi intorno a una questione analoga. È Bianco di Cecilia De Marchi Moyano (Blanco, Cochabamba 2015) il fenomeno di un colore come tutti gli altri? È un elemento della sua strumentazione compositiva? È soltanto una “tavola” – come il testo sembra suggerire sin dalle prime righe – o è anche il risultato di un innesto prodottosi sulla “tavolozza” dell’autrice, che anticipa e predispone quel complesso atto pittografico che usiamo chiamare, per brevità, con il nome di scrittura? A questi interrogativi che interpellano colei che si propone di rispondere, pagina dopo pagina, con brevità certamente deliberata e programmatica, realizzando materialmente quell’atto – “perché tutto abbia un senso, compia un destino” – l’empatia del lettore è chiamata per lo meno a corrispondere: come “un reclamo, un obbligo, un promemoria di quanto ci resta da dire”. Non ci si lasci fuorviare dalla difficoltà di stabilire a quale genere letterario – poesia, narrativa, meditazione aforistica o recitativa – questa “tavola che bisogna apparecchiare” possa venire convenzionalmente ascritta; poiché essa è stata “pensata per essere condivisa”.

Claudio Cinti

Commenti