Nostalgia per gli scarti


Quando andavo alle superiori, in Bolivia, avevo un amico chiamato Percy che viveva in un palazzo in costruzione. Lui abitava all'ultimo piano, in una specie di appartamento che aveva soltanto i muri esterni (con vetri e porte) ma non i muri interni. Lui aveva creato dei muri, delle stanze e degli spazi usando dei vecchi vinili. Aveva, tra l’altro, creato le stanze usando dei criteri di selezione per genere musicale. La cucina era la zona dei dischi country, il soggiorno tapezzato dal rock progressivo, il salotto custodito tra pareti di pop e folk. Il bagno riservato agli artisti che odiava.

Aveva una passione immensa per la musica (infatti, adesso ha uno studio proprio); ma aveva anche una forte manìa per la conservazione degli scarti. A casa sua facevamo scoperte musicali inaspettate. I dischi li prendeva a peso dai depositi di rimanenze di uno studio locale, “Lauro & Cia.”, e non sapeva neanche lui cosa e chi c’era tra gli album ricevuti. Apriva i pacchi e si trovavano insieme Tony Scott e Raffaella Carrà, Las conquistadoras e The mamas and the papas, Luzmila Carpio e The Four Season. Questa miscela di stili e di suoni faceva sì che visitare la sua casa fosse come visitare dei mondi alternativi fatti di storie raccontate attraverso i suoni.

Ecco, ci sono delle persone, dei pazzi e ossessivi, che conservano gli scontrini, le tessere del tram, i biglietti del treno, i giornali, i libri, i dischi, gli incarti del pandoro, frammenti che possono diventare dei codici di lettura della vita, segni che permettono loro di ricordare, rivivere e ricreare ogni situazione, anche quella vissuta da altre persone. Sono una specie di portale dimensionale, di sportelli verso un mondo con corpo di carta e scarti.

Alle 11:32 di domenica 18 ottobre ho preso l’autobus da Altavilla verso Vicenza. Sono andata alla libreria Galla e ho cercato dei libri per il mio appuntamento settimanale con le recensioni. Guardando gli scaffali sono incappata in un esemplare strano, Perversioni inconfessabili, di Giuseppe Marcenaro, pubblicato dalla editrice Italo Svevo. Il libro aveva una copertina particolare al tatto (stampata su carta Fabriano Fabria Brizzato) ed era (in un certo senso) vergine, intonso: le pagine non erano completamente tagliate, per cui bisognava aprirle per leggere, romperle, affondare un coltello nella loro pelle, fendere le lamine di fibra per godere ogni pagina.

Si trattava di un libro sui libri. Un libro sul piacere perverso della conservazione della carta, delle pagine, delle lettere. Una festa alla quale si entra a condizione di sentire la nostalgia degli scarti, una passione per il disordine, il bisogno di perdersi in labirinti di libri.

Non è un libro "bello". È un gioiello, un oggetto prezioso e curato con premura e attenzione ai dettagli, con narrazioni che ci portano a conoscere il rapporto del libro con il lettore, la cura di chi scriveva le lettere a mano, la difficoltà di chi non scrive con la fluidità del rubinetto aperto al flusso continuo ma che ha bisogno di trovare una porta al miracolo, la possibilità di riconoscere una città dalla geografia dei marciapiedi, il modo giusto di ridere sulla carta (ahahah, quella è stata una scoperta inattesa!), la storia dei libri mai letti…

In un certo senso, con questo libro mi sono sentita a casa. Anche se ho notato, come mai prima d'ora, una forte limitazione nel mio lessico (non tanto per la possibilità di capire il testo, ma di esprimere quanta gioia mi provoca oltre il banale “è carino”), mi sono sentita a casa. Ovvero, mi sono sentita avvolta dalle parole come, tanti anni fa, mi sentivo a casa di Percy, circondata dai vinili.

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