Il tempo che non c'è


Diventare madre è come attraversare un portale dimensionale: è un fatto tanto grande che cambia completamente la vita di una donna senza ritorno. Ma se è difficile diventare madre, c’è qualcosa che può esserlo ancora di più: diventare madre di un bambino disabile. Valeria Parrella parte da questa idea per immergerci nei pensieri di una mamma che riceve, poco dopo la nascita del piccolo Arturo, le prime diagnosi di disabilità dovute a sofferenza fetale durante il parto, e poi vengono anche rilevati dei tratti autistici. Il libro (non la storia) inizia con la prima giornata di scuola alle elementari. Questo fatto, che dovrebbe essere un momento di gioia e speranza, per la voce narrante, la madre, non lo è: si tratta invece di un momento di angoscia e paura. Il libro Tempo di imparare (Einaudi), di Valeria Parrella, è ben scritto: si nota la bravura della scrittrice nella fluidità con cui si può leggere… ma  - lo confesso - mi sono sentita molto a disagio.

Sono autistica. Ho ricevuto una diagnosi recente, solo dopo essere arrivata dalla Bolivia. Nel mio paese di origine ho fatto volontariato in un centro per bambini con disabilità intellettiva. Adesso faccio volontariato nel Gruppo Asperger Veneto e ho collaborato anche con il Centro Regionale per L’Autismo del Veneto. Ho iniziato la pratica per far riconoscere la diagnosi per rientrare nella legge 104, perché ho bisogno che vengano riconosciute le mie particolarità per poi trovare un lavoro adeguato alle mie potenzialità ma anche alle mie limitazioni. La lettura di questo libro, dunque, viene inquadrata in queste esperienze personali.

Fino alla metà del libro mi sono sentita molto coinvolta da questa madre. In fondo, tutti i genitori speriamo che i nostri figli nascano sani. Capisco, allora, il senso di frustrazione e rabbia, di colpa e di disperazione quando si scopre che questo non è successo. Se quando nascono i figli la vita viene trasformata perché fare i compiti normali diventa un lavoro molto più faticoso e la libertà viene in un certo senso limitata, quando c'è una disabilità le cose non solo cambiano in quel senso, ma viene anche una profonda angoscia per il futuro del bambino e dei genitori stessi. Credo che Valeria Parrella sia stata bravissima nel riuscire a descrivere il desiderio di negazione della realtà, la lotta interiore della madre, la rabbia, l'invidia verso i bambini normali e la confrontazione contro il mondo. Ma poi…

Ecco. Dalla metà in poi del libro ho cominciato a provare rabbia verso il personaggio. Se il libro si chiama “Tempo di imparare”, questa mamma non sembra proprio essere capace di trovare quel tempo. Faccio alcuni esempi, prendendo dei brani proposti dall’autrice:

Sulla legge 104: “Che sconfitta, figlio, tenere assedio al proprio Paese. Uno stato che ti guarda dall’alto in basso e vede che quel tuo tatuaggio, 104, è una seccatura, un difetto da non tutelare, ma da relegare ai margini della società e dimenticarsene. Per sempre”. Credo che questa madre sia tanto presa dall'angoscia che non ha capito né la legge, né la sua funzione, né la sua importanza. Ho vissuto in un paese dove non esiste e non funziona nessun sistema di aiuto verso le persone con disabilità e so quanti bambini (e poi adulti) vengono lasciati rinchiusi in istituzioni senza sufficiente personale, esperienze e risorse, lasciati alla fortuna, perché né lo Stato né le famiglie sono in grado di prendersi in carico di chi ha disabilità intellettuali o fisiche severe. Senza dubbio, il funzionamento delle istituzioni italiane è lento e pesante, e sicuramente non è ottimale; ma l’esistenza di queste normative permette che ci sia un qualche sostegno verso la persona (e la famiglia) disabile, che ci sia la possibilità di avere un insegnante di sostegno o di trovare un lavoro e avere una vita degna, anche se limitata.

Sull’accettazione: “Allora io sento che [il psicologo] mi sta dicendo che il problema scomparirà il giorno in cui io non lo sentirò più, e io non lo sentirò più quando avrò accettato. E penso che questa cosa è ingiusta in sommo grado giacché io non mi arrendo mica, e non accetto... Arrendersi e accettare significa morire per me”. Questo mi sembra particolarmente grave. Quanto prima si accetta la situazione, prima si può cambiare punto di vista, smettendo di centrarsi nella propria sofferenza per dare spazio alla prospettiva del figlio. Questo cambio di punto di vista permette di accettare il bisogno di aiuto, ascoltare le altre persone coinvolte nel processo educativo per il miglior sviluppo possibile del bambino e alzarsi le maniche per mettersi al lavoro. Il personaggio sembra a momenti troppo centrato sul proprio dolore per riuscire a capire i bisogni specifici del suo bambino.

Sugli specialisti, la madre ha delle visioni contraddittorie. Per esempio, scrive al notissimo neurologo e psichiatra britannico Oliver Sacks chiedendo aiuto. La risposta è prevedibile: arriva un messaggio automatico scusandosi per non poter assistere alla donna. Ma poi, sui medici di base, dice: “Intimità. Ecco il luogo dove la diagnosi non si spingerà mai, invisibile al medico che sa dire solo «condotte autistiche»”, considerando che la loro visione sia limitata soltanto alla parte fisiologica. Il problema è che c’è una interazione profonda tra la salute e il comportamento, e quello può avere un impatto nell’intimità dei rapporti con le persone che sono vicine al soggetto autistico. Poi, quasi alla fine, la madre prova una rabbia profonda (la “rabbia primitiva”) diretta verso i gestori dell’addestramento parentale (il parent-training), da cui copio alcuni frammenti, tutti appartenenti alle pagine 100 e 101: “Quello che provo è un senso di superiorità … ci sapete fare con i nostri figli e pure con noi. Ma … non sapete veramente neppure un frammento della mia frustrazione quando Arturo non fa, neppure un frammento della mia gioia quando Arturo fa… io so, e voi no… pagateci per farvi spiegare … Voi vi sedete qui e prendete appunti: non «scrivete» anni di appunti che avete «evinto» dalle nostre vite. Proprio prendete appunti su quello che noi diciamo”. Mi sembra che da una parte la madre voglia aiuto ma allo stesso tempo lo rifiuti, che pensi che il fatto che il suo bambino sia unico (come ogni autistico lo è) significhi che non sia possibile avere un dialogo con gli specialisti, come se loro non sapessero di questa unicità.

Nella mia esperienza (che è locale e limitata) gran parte delle persone che lavorano nei gruppi di parent-training e tanti medici che si interessano all’autismo hanno dei rapporti molto vicini con persone autistiche (figli o parenti) o sono loro stessi autistici, per cui non hanno proprio una voce lontana e che vuole imporre una dottrina astratta, ma sono delle persone che hanno un autentico interesse nel benessere dei bambini / ragazzi / adulti autistici.

Insomma: ho avuto molta difficoltà nel seguire i ragionamenti di questo personaggio, data la sua sostenuta volontá di non accettare la situazione del figlio.

Credo comunque che sia un ottimo ritratto per capire cosa pensa una donna quando riceve la diagnosi del proprio figlio, quando capisce che ci sarà un limite in certe aree della vita che non potrà essere superato. Credo che questo libro sia un'opportunità per avvicinarsi ai modi diversi di capire la realtà (il modo neurotipico e quello atipico), e per capire che ognuno di loro ha dei limiti e dei pregi. Può servire anche per capire la difficoltà dell’accettazione della diagnosi quando l’accento è messo soltanto e unicamente nelle disabilità e non nella potenzialità delle persone.

Commenti